Inizieremo con un problema che ci condurrà ad un problema ancora più grande, perché forse non sono risposte quelle che cerchiamo ma domande sempre nuove, sempre più estese ed interessanti anche se si ha la costante sensazione di non avere un terreno ben saldo sotto i piedi.
Forse l’uomo vuole trovarsi in crisi perché la crisi gli consente di svilupparsi, di avere punti di vista sempre nuovi.
E poi, le risposte a tutte le domande sono su Wikipedia, per coloro che si accontentano.

Le premesse

Si è comunemente portati a pensare alla tecnica come ad uno strumento di cui possimo disporre liberamente.
Si è portati a credere che abbiamo il controllo della situazione e soprattutto che possiamo disporre liberamente del tempo che abbiamo a disposizione.

Il problema

Il processo di creazione di immagini digitali che risultano essere indistinguibili da una fotografia si chiama tecnicamente “sintesi di immagine realistica”.
Una prima serie di domande si presentano.
Ottenere prodotti fotorealistici con un computer è un processo complesso che presuppone la comprensione dei fondamenti della matematica e della fisica, specialmente in campo ottico.
In che modo la luce interagisce con i materiali e le superfici nel mondo reale?
Che cosa succede quando i raggi luminosi attraversano il cristallino e si proiettano sulla retina?
A seconda del materiale che incontra la luce crea riflessi e rifrazioni sulle superfici o si distribuisce nello spazio uniformandosi a leggi rigorose.
Nel mondo 3D ci sono molti algoritmi matematici che simulano questi processi che avvengono in natura.
Sostanzialmente, la funzione di un software e del suo utilizzatore è quella di creare immagini che siano riconoscibili e credibili.
Cosa si intende fondamentalmente per fotorealismo?
Si tratta di una serie di processi, attività di analisi e conseguente sintesi che conducono, se adeguatamente svolti, alla produzione di una rappresentazione (ri-presentazione) credibile della realtà così come noi la conosciamo. Questo ci permette appunto di ri-conoscere l’oggetto o la scena in questione e di ri-definirla all’interno del nostro già collaudato schema rappresentativo, l’unico che ci consente di mantenere la nostra continuità focalizzata su immagini note e con caratteristiche ben precise, tali da innescare una serie di comandi e automatismi nel nostro cervello che si strutturano in un pensiero o meglio una crendenza sulla realtà e genuinità dell’oggetto osservato.

In altre parole ci consente di affermare la nostra adesione al quel tipo particolare di rappresentazione, di sottoscriverne il senso e, in ultima analisi, di poter dire: “ci credo, è sicuramente reale”.
Siamo sulla soglia di una pericolosa porta che condurrebbe inevitabilmente ad una disquisizione filosofica sulla natura e sulla “consistenza” della realtà stessa, ma dobbiamo in qualche modo evitare di attraversarla, in questo momento.
Per questo tipo di attività (come per altre) è sufficiente sapere (e troppo spesso, dare per scontato) che la verosimiglianza è determinata dalla fedeltà dell’immagine generata, a quel tipo particolare di rappresentazione con il quale abbiamo acquisito familiarità nel corso di questi ultimi cento anni della nostra storia. La fotografia e il cinema, o meglio, il loro linguaggio, divengono i nostro interpreti, i nostri paradigmi che tracciano e definiscono per noi i limiti del reale.
Si potrebbe anche dire che più un oggetto è simile e fedele a qualcosa di già noto, più è per noi reale.
La computer grafica, così come quasi tutte le altre attività che oggi operano e producono comunicazione sull’onda di una incessante deriva tecnologica, non dovrebbero essere considerati, quando sono al servizio del mercato (e non solo), strumenti di creazione ma strumenti di ri-affermazione, ri-creazione e fissazione della realtà stessa, voluti da un tipo particolare di visione e percezione e che operano per ri-determinare, in modo assolutamente autopoietico e autoreferenziale esattamente quel tipo di visione e percezione.
Un valido strumento per rendere la realtà uguale a se stessa, magari più bella, esattamente come succede ad una modella o un attore in sala trucco.
Il cosiddetto “artista” digitale è in realtà un tecnico, al servizio della tecnica e del mercato.
Risulta evidente a questo punto che il primo dei due aspetti che contribuiscono a mantenere inalterata la nostra continuità rappresentativa è costituito dalla fedeltà delle geometrie e delle propozioni dell’oggetto o della scena, la sua forma e i suoi rapporti spaziali e la definizione dei dettagli, nonchè la sua presenza all’interno di un flusso temporale, se il lavoro è finalizzato alla realizzazione di un’ animazione. Gli strumenti messi a disposizione da queste tipologie di programmi, soddisfano egregiamente questo tipo particolare di esigenza e consentono di mantenere un controllo assoluto sulle geometrie spaziali e sul tempo.
Il secondo fattore determinante è costituito dalla fedeltà dei materiali utilizzati per mappare le geometrie presenti nella scena. Come in natura ogni materiale risponde ed evidenzia determinate caratteristiche chimico-fisiche, così all’interno di un programma di computer grafica è possibile simulare tali proprietà con una fedeltà direttamente proporzionale al grado di conoscenza dell’utilizzatore.
Il grado di fedeltà raggiunto si configura spesso, contrariamente alle aspettative, come un limite: si assiste infatti alla generazione di immagini digitali estremamente pulite, asettiche, che limitano e innescano dubbi sulla genuinità del prodotto ottenuto, tanto che si è costretti a “sporcare” le immagini con sistemi artificiali, introducendo imperfezioni, irregolarità, simulazioni di grana fotografica e difetti per conferire maggiore realismo alla rappresentazione.

Un terzo aspetto dell’immagine realizzata che sposta la nostra attenzione in campo puramente estetico, non determinante per la credibilità dell’oggetto o della scena, è dato dalla qualità dell’illuminazione e delle sue caratteristiche, questione tipicamente foto-grafica dove, all’interno di uno studio virtuale, ci si trova alle prese con le stesse problematiche di un fotografo tradizionale incaricato di realizzare un servizio per un tipo di prodotto destinato ad una specifica funzione comunicativa.
Anche qui gli strumenti a disposizione dell’utilizzatore sono molteplici e ricalcano le funzioni delle attrezzature a disposizione della fotografia tradizionale, il loro linguaggio e i sistemi di codifica delle informazioni e di analisi.

I grossi vantaggi in termini economici, che il mercato non ha mancato di notare, di questi nuovi sistemi alternativi alla fotografia tradizionale inaugurati dal continuo sviluppo della computer grafica, sono evidenti.
La capacità di avere ad esempio un database infinito e sempre aggiornato dei prodotti di una determinata azienda all’interno di uno studio virtuale che non deve essere smantellato come di solito accade nel caso di un servizio fotografico di tipo tradizionale, ma che rimane memorizzato in un archivio fino al suo futuro, possibile riutilizzo nel tempo; la possibilità di aggiornamento continuo delle geometrie all’interno del database e la capacità di accogliere all’interno di un solo modello tridimensionale infinite possibilità di combinazioni di materiali e finiture diverse.
Uno studio così configurato abbatte sensibilmente i costi di produzione del materiale destinato al servizio fotografico, il suo trasporto in studio con conseguente montaggio, allestimento, smontaggio, affitto dello studio e del personale preposto alle mansioni di facchinaggio.

Inoltre costituisce un supporto estremamente valido nelle fasi inziali della progettazione di un prodotto o di un ambiente, manifestandosi come continua risposta visiva del progetto e strutturandosi come valida alternativa alla prototipazione, almeno nelle fasi iniziali dello sviluppo di un’idea o di un progetto illuminotecnico.

La metamorfosi del sistema di produzione delle rappresentazioni, dell’industria dell’immagine è ormai pienamente strutturata ed in fase di transizione avanzata. Il mercato ha dato ormai da tempo il suo assenso e si assiste ad una continua e sempre crescente migrazione degli incarichi un tempo destinati in modo automatico alla fotografia, in direzione di questi nuovi scenari concorrenziali carichi di promesse e aspettative. La scelta è ormai pienamente orientata e in ogni caso, come sempre succede, la preferenza sarà accordata alla disciplina che garantirà maggiori profitti; in realtà non si tratta nemmeno di una vera scelta, ma di un inevitabile accadimento automatico, un passaggio da una tecnica ad un’altra che promette di più.

Per chiunque desideri mantenere un certo distacco, indispensabile per evitare di essere travolti dal flusso degli eventi e perdere coscienza dei processi che sono in corso, è inevitabile una costante riflessione sul senso profondo della tecnica, sulla ridefinizione delle sue finalità e del suo crescente potere, che nel corso dei secoli, ma in modo estremamente visibile nel corso di questi ultimi cento anni, ha in qualche modo rovesciato le parti in giuoco, trasformandosi da strumento a servizio dell’umanità intera a scenario di fondo dell’esistenza, a fondamento stesso di definizione della realtà, dei comportamenti e delle aspirazioni più intime dell’uomo, dove si assiste impotenti alla triste visione di un agire etico che si appiattisce e si dissolve di fronte all’incedere del fare tecnico.

[ – L’etica, di fronte alla tecnica, diventa pat-etica: non si è mai visto che un’impotenza sia in grado di arrestare una potenza. Il problema è: non cosa possiamo fare noi con gli strumenti tecnici che abbiamo ideato, ma che cosa la tecnica può fare di noi. – ]*

Zarko Baumann

(*) Umberto Galimberti, Psiche e techne